Omero, la Bibbia e Dostoevskij in un libro dell’esegeta Jean-Louis Ska.
… la salvezza può provenire da una banale cipolla, come nel racconto narrato da Gruscenka nel settimo libro. Una donna malvagia muore ed è gettata dai diavoli in un lago di fuoco. Il suo angelo custode, desideroso di salvarla, riferisce a Dio l’unica buona azione della sua vita: una volta la donna strappò una cipolla dal suo orto e la offrì a una mendicante…
(I fratelli Karamazov) Da L’Osservatore Romano del 24.08.2015
Che cosa hanno in comune la descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade di Omero, l’episodio biblico di Eliseo nel Secondo libro dei Re e il breve racconto della cipolla riportato nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij? Molto più di quanto a prima vista si potrebbe pensare, come dimostra il gesuita belga Jean-Louis Ska, professore di esegesi dell’Antico Testamento al Pontificio Istituto Biblico di Roma, nel saggio breve Lo scudo e la farina.
Omero, la Bibbia e Dostoevskij (Bologna, Edb, 2015, pagine 36, euro 5,50).
Alla descrizione dello scudo di Achille sono dedicati ben 130 versi nel capitolo XVIII dell’Iliade (478-608). Sulla splendente arma di difesa, forgiata da
Efesto dietro commissione della madre di Achille, la nereide Teti, è rappresentato l’universo con la terra, il cielo e il mare. Molto particolareggiate sono le immagini che riguardano la società dell’epoca, dal lavoro nei campi alla pastorizia, dallo svolgimento di un processo ai momenti di festa con danze e banchetti. La stabilità e la prosperità di questo piccolo cosmo dipendono dalla capacità del re di governare il Paese e difenderlo contro i suoi nemici, affidandosi al coraggio dei guerrieri. La centralità della guerra è testimoniata dall’ampio spazio riservato a una scena di battaglia, in cui gli assediati escono dalla città per preparare un’imboscata, guidati da Ares e da Atena (509-540).
Il combattimento, che avviene sulle rive di un fiume, si trasforma rapidamente in una reciproca strage, su cui aleggiano minacciose le personificazioni di Furia, Tumulto e Morte funesta. Queste complesse rappresentazioni si trovano su un oggetto fuori dal comune, «unico e impareggiabile» secondo Ska, sia perché realizzato direttamente da un dio sia perché destinato a un eroe di natura semidivina.Una scena ben diversa è quella descritta nel Secondo libro dei Re (4, 38-41): qui non siamo nel mondo aristocratico e guerresco della Grecia arcaica, ma nell’umile quotidianità del popolo di Israele, che lotta ogni giorno per la propria sopravvivenza. Protagonista è Eliseo che, appena tornato a Gàlgala, ordina di preparare una minestra per i figli dei profeti. Nella città imperversa una grave carestia e le scorte sono terminate. Uno dei figli dei profeti, improvvisatosi cuoco, si reca nel bosco in cerca di verdure: raccoglie delle zucche selvatiche e, scambiandole per ortaggi commestibili, le cucina. Fin dal primo assaggio, la sua minestra risulta però immangiabile:
«C’è la morte nella pentola, uomo di Dio!», gridano i commensali. La sua buona volontà è servita a poco.
Spetta a Eliseo trovare una soluzione alla mancanza di cibo: si fa portare della farina e la getta nella pentola. Questa volta la minestra non è avvelenata e tutti possono mangiarne. Nell’episodio biblico, la sopravvivenza è assicurata da un elemento semplice come la farina. Altrettanto comuni sono il sale e l’olio, che compaiono in altri due racconti riguardanti Eliseo. Nel primo (2 Re, 2, 19-22), il profeta getta del sale in una sorgente di Gerico, purificando le acque che fino ad allora avevano causato morte e sterilità; nel secondo, moltiplica le riserve di olio di una vedova, che può così venderlo e saldare i debiti della sua famiglia (2 Re, 4, 1-7).
Anche nei Fratelli Karamazov la salvezza può provenire da una banale cipolla, come nel racconto narrato da Gruscenka nel settimo libro. Una donna malvagia muore ed è gettata dai diavoli in un lago di fuoco. Il suo angelo custode, desideroso di salvarla, riferisce a Dio l’unica buona azione della sua vita: una volta la donna strappò una cipolla dal suo orto e la offrì a una mendicante.
di Giovanni Cerro
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